Trentaquattro anni fa moriva in un agguato di mafia il vicecapo della Squadra mobile.
I killer lo aspettavano a casa.
Ecco la storia degli anni insanguinati di Palermo visti attraverso gli occhi della persona che gli stava più vicino al mondo, Laura
La voce amara di Paolo Borsellino che ironizza sulla libertà di morire ammazzato la sera quando non era disponibile l’auto blindata, riemersa dagli archivi segreti della commissione parlamentare antimafia, non le ha provocato particolari emozioni: «Purtroppo per noi quella situazione era il pane quotidiano. Noi sapevamo già tutto, ma quelli che ascoltavano no, e la cosa grave è che quando hanno saputo non hanno fatto niente per cambiare la situazione, lasciando soli e senza mezzi quei pochi che combattevano la guerra sulla trincea. Ninni è morto per questo».
Laura Iacovoni Cassarà è la moglie di Ninni Cassarà, il vicecapo della Squadra mobile di Palermo trucidato dai killer corleonesi 34 anni fa, il 6 agosto 1985, un anno e tre mesi dopo la denuncia di Borsellino all’Antimafia. Erano ancora i tempi della protezione in orario d’ufficio, e Cassarà fu ammazzato durante la pausa pranzo. Non perché non fosse scortato, aveva pure l’auto blindata «anche se si rompeva in continuazione». Morì perché nessuno l’aveva portato via da una città che non poteva più essere sicura per uno come lui: «Viveva e lavorava in un isolamento tangibile, segnalato, ignorato. Se vieni additato come colui che porta avanti le indagini con più convinzione degli altri, diventi il nemico numero 1 e ti fanno fuori. Alla Squadra mobile Ninni poteva contare solo su un piccolo gruppo di uomini sicuri e fedeli, niente più».
Lo sterminio dei fedelissimi
Uno era il commissario Beppe Montana capo della Sezione catturandi, ucciso dieci giorni prima di Cassarà, domenica 28 luglio, sul lungomare di Porticello, di rientro da una gita in barca con la fidanzata. «Quel giorno anche noi dovevamo essere lì – ricorda la signora Laura – ma all’ultimo momento non siamo andati perché era arrivato un mio zio da Messina. La sera giunse la telefonata, Ninni si gelò e uscì». Sul luogo del delitto accorsero anche Giovanni Falcone e Borsellino, il quale svelò che davanti al cadavere di Montana Cassarà disse loro: «Convinciamoci che siamo cadaveri che camminano». Quando toccò a lui, Falcone affranto si sfogò con Laura: «Mi hanno fatto calpestare il sangue di Ninni…». Un altro fedelissimo era l’agente Roberto Antiochia, 23 anni, che dopo l’omicidio Montana rientrò dalle ferie per aiutare Cassarà nella ricerca degli assassini e proteggerlo. Fu travolto con lui dalla grandine di proiettili: «Ma è normale che sia un ragazzo come Antiochia a decidere di tornare per stare vicino a Ninni? È il segno della disattenzione e sottovalutazione da parte di chi doveva capire, prevenire, evitare quello che è successo. Lo capisce Antiochia che c’è pericolo, e non lo capiscono i superiori?». E poi c’era Natale Mondo, da anni l’ombra di Cassarà, sempre al suo fianco: in ufficio, in macchina, nei sopralluoghi e negli interrogatori, nei momenti liberi a fargli da guardaspalle mentre “il capo” passeggiava con la moglie, a controllare fuori dalla scuola dei figli, ad accompagnare a pesca lui e Falcone. Il 6 agosto era alla guida dell’Alfetta, non morì perché riuscì a proteggersi dietro una fioriera. Lo uccisero due anni e mezzo più tardi, la mafia non lascia conti in sospeso: «Prima hanno provato a infangarlo sospettandolo di essere la talpa che avvisò i killer, ma io ho testimoniato che non poteva essere vero. E non era vero. Ninni gli aveva affidato la sua vita, gli aveva affidato noi».
La strage in diretta
Laura Cassarà quel giorno vide tutto in diretta, affacciata dal sesto piano dove abitava con Ninni e i tre figli: Gaspare di 10 anni, Marida di 8, Elvira di 2. Con lei aveva solo la piccolina, gli altri erano in vacanza coi nonni: «Faceva molto caldo. Ninni mi chiama poco prima delle 15 per dirmi che torna a casa. Non rientrava da due giorni, dopo l’omicidio Montana l’avrò visto un paio di volte. Gli chiedo se si ferma a mangiare qualcosa, e lui mi dice di sì». Laura si mette in attesa sul balcone, come faceva spesso, con Elvira in braccio. Dopo pochi minuti vede arrivare l’Alfetta blindata, e subito comincia il crepitare dei kalashnikov: «Io non capii che sparavano, pensai a una bomba, mi affacciai per vedere se la macchina saltava in aria». Il consigliere istruttore Rocco Chinnici l’avevano ammazzato così, due anni prima, questa era la guerra di Palermo: « Guardo giù e vedo Ninni che comincia a correre verso l’atrio del palazzo, e poi sento Mondo gridare “Signora vada dentro!”». Laura si precipita giù per le scale, consegna Elvira a un vicino e quando arriva sul primo pianerottolo vede Ninni a terra: «Ero convinta di trovarlo vivo, l’avevo visto fare i primi quattro gradini con un solo balzo. Pensavo che ce l’avrebbe fatta, e in effetti c’è mancato poco. L’autopsia ha stabilito che un solo colpo l’ha ucciso, recidendo l’aorta». L’immagine della vedova Cassarà accanto al corpo senza vita del marito riverso sulle scale di casa è una delle icone della guerra di mafia che s’è combattuta a Palermo all’inizio degli anni Ottanta. O meglio la guerra che la mafia dichiarò a quel pezzo di Stato che non voleva arrendersi a connivenze, convivenze e “zone grigie”.
Disarmati in guerra
Pochi uomini mandati allo sbaraglio, e pochissimi mezzi: «Anche alla Mobile serviva il computer che Borsellino voleva all’Ufficio istruzione, ma nessuno se ne preoccupava. Così a Ninni venne l’idea di farselo regalare dall’American Express come premio a chi presentava amici e conoscenti titolari di nuove carte di credito. Si arrangiava».
Come quando dava la sua Vespa all’agente Calogero Zucchetto per perlustrare i quartieri a caccia di latitanti, finché nel 1982 qualcuno lo riconobbe e finì ammazzato davanti a una cabina telefonica, mentre mangiava un panino. Un lungo elenco di caduti, uno dopo l’altro. Prima della drammatica estate del 1985 c’erano stati sei anni di omicidi cosiddetti “eccellenti” – da Boris Giuliano a Piersanti Mattarella, dal prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa al giudice Chinnici passando, per Michele Reina, Pio la Torre e tanti altri – che aveva decapitato il vertice politico-giudiziario-investigativo della città; uno sterminio istituzionale senza eguali nel mondo.
«Noi siamo arrivati a Palermo da Trapani nel 1981 – ricorda Laura Cassarà -, nel pieno di questa guerra di cui nessuno, tra chi di dovere, si degnava di occuparsi. A ogni delitto seguivano dichiarazioni di sdegno, funerali solenni e grandi promesse, ma poi tutti ripartivano e qui si continuava con il solito tran tran: pochi e disarmati che finiscono additati come il vero e unico pericolo per la mafia. Trasformandosi in bersagli da colpire».
Funzionava così la palude palermitana: un drappello che porta avanti riforme o indagini, mentre gli altri stanno a guardare. Nei palazzi della politica, negli uffici giudiziari, tra le forze di polizia: «Anche in questura», accusa la moglie di Cassarà, dove il vice-capo della Mobile diffidava del capo (Ignazio D’Antone, poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa) e di altri poliziotti di grido come Bruno Contrada (condannato anche lui). Per questo, dopo la sua morte, Laura non volle la camera ardente in questura, né esequie di Stato: «Meglio tenerlo a casa sua, con le persone che gli hanno voluto bene. Ho pensato che Ninni avrebbe fatto così».
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Burocrazia complice
Precauzioni per salvare la famiglia dalla vendetta. L’unica via di scampo per sé sarebbe stata andarsene, ma non lo chiese: «Toccava ad altri proporlo, non gli hanno dato nemmeno la possibilità di dire no. A un certo momento si parlò di un trasferimento a Genova, ma gli comunicarono che il posto era già occupato. Può essere una risposta sensata, se c’è la necessità di salvare una vita?». La burocrazia a volte diventa complice degli assassini. Come l’indifferenza denunciata proprio da Cassarà all’indomani dell’omicidio Montana, quando si lamentò per lo scarso rilievo dato a quel fatto dai mezzi d’informazione: «Senza il sangue versato dai poliziotti, molti Soloni che si riempiono la bocca di grandi strategie antimafia non potrebbero pontificare… Ma purtroppo qui chi mostra di fare sul serio, prima o poi muore ammazzato». Lo disse una settimana prima che arrivasse il suo turno. Nel frattempo dovette attraversare un’altra tempesta: la morte in questura di un sospetto basista dell’omicidio Montana, Salvatore Marino, durante violenti interrogatori. Quando accadde, Cassarà era fuori ufficio: «Mi consegnò la copia di un verbale dal quale risultava che lui non c’entrava, come una prova da conservare a futura memoria se lui non avesse potuto più difendersi. Un altro segnale che sentiva la fine vicina».
I killer stavano già preparando l’agguato, appostandosi su tre piani del palazzo di fronte: «Qualcuno li ha avvisati che stava tornando a casa, ma non può essere stato chi ha visto uscire la sua macchina dall’ufficio, perché quello accadeva di continuo. A casa invece non tornava da giorni. Avvisò me pochi minuti prima, con quella telefonata». Di “talpe” nell’omicidio Cassarà s’è sempre parlato, sebbene i pentiti non abbiano fatto nomi. Laura Cassarà aveva 34 anni quando tutto precipitò, suo marito 38: «Eravamo giovani, forse troppo per le responsabilità che dovemmo affrontare. Ci è stato chiesto tanto».
Qualcuno ha deciso
Oggi sul pianerottolo dove cadde Cassarà c’è un estintore; la targa che ricorda l’eccidio è stata messa nel cortile del condominio dopo vent’anni; nel trentaquattresimo anniversario la questura di Palermo ha deciso per una stele sulla pubblica piazza, in modo che tutti possano leggere e ricordare. La moglie di Cassarà è una donna serena, che ha continuato a vivere con fatica, seguitando a insegnare inglese fino alla pensione e crescendo bene i tre figli che le hanno dato altrettanti bellissimi nipoti: «È stato un percorso difficile e doloroso, che ci portiamo dentro, ma è anche la nostra forza. Mi aspettavo un’altra vita, poi qualcuno ha deciso che andasse diversamente. E non mi riferisco agli assassini, che sono un aspetto quasi marginale. Penso a chi doveva proteggerlo e non l’ha fatto, a chi non ha capito che bisognava portarlo via, o non ha voluto farlo».
Lo fecero con Falcone e Borsellino, all’indomani dell’omicidio Cassarà: presi e deportati nel supercarcere abbandonato dell’Asinara, dalla sera alla mattina, perché non c’era altro luogo in cui garantirne la sicurezza mentre scrivevano il rinvio a giudizio del maxiprocesso: «Poi nel 1992 hanno presentato il conto anche a loro, ed è stato un altro momento terribile. Prima però hanno dovuto subire isolamenti e sconfitte. Non da parte della mafia, ma dello Stato. Com’è successo a Ninni Cassarà, mio marito».
Questa mattina alle ore 9.00 .“IL GIORNO DELLA MEMORIA” sotto una fitta pioggia battente si è svolta la Cerimonia di commemorazione del Vice Questore della Squadra Mobile NINNI CASSARA‘ e dell’Agente ROBERTO ANTIOCHIA, impegnati con determinazione al contrasto alla criminalità organizzata , assassinati per mano mafiosa oggi 6 agosto 1985.
Presso il Simulacro di Ricordo, in Piazza Giovanni Paolo II è stata deposta una corona d’Alloro mentre nella CHIESA DEL SS SALVATORE è stata celebrata la santa messa di Autorità Civili e Militari
PRESENTE LA RAPPRESENTANZA A.N.P.S. di Monreale CON LA BANDIERA.